N.B.: Questo articolo è tratto dal precedente blog di Neorema Comunicazione.
[riprende Paura, granfalloon, propaganda e fischietti (1)]
Nel 1963 il romanziere americano Kurt Vonnegut pubblicò un racconto dal titolo “Cat’s cradle” (in Italia “Ghiaccio-nove”) all’interno del quale si agitano molti personaggi fedeli a una religione (inventata) che prende il nome di “Bokononismo”.
Il fondamento di questo credo è che tutte le religioni esistenti –e quindi anche il Bokononismo- siano costituite unicamente da bugie.
Tuttavia se tali bugie sono innocue, chi vi crede può avere una vita felice raggiungendo così lo scopo del Bokononismo che, guarda caso, è proprio la felicità.
E quindi cosa ha a che vedere tutto ciò con il “granfalloon” ?
Questo termine (che appare per la prima volta proprio nel romanzo di Vonnegut) è meglio conosciuto in psicologia sociale come “paradigma del gruppo minimo” sul quale si fonda una potente tecnica di persuasione che, come sempre, si rivolge alle emozioni e non alla ragione [ricordi A. Hitler nel “Mein Kampf” ? ‘…gli effetti della propaganda devono sempre essere rivolti al sentimento, e solo limitatamente alla cosiddetta ragione‘ ]; in altre parole, forma e non contenuto, etichette e non sostanza.
Il primo psicologo sociale che codificò tale meccanismo fu il britannico Henri Tajfel che utilizzando i sistemi più futili e irrilevanti che si possano immaginare divideva in gruppi distinti i partecipanti ai suoi esperimenti, per poi studiarne il comportamento.
Ne citeremo uno a mo’ di esempio.
Egli lanciò ripetutamente una monetina che a seconda del risultato assegnava un individuo a un gruppo X o a un gruppo Y; una volta formatisi i due gruppi egli lasciava che i componenti al loro interno si conoscessero brevemente (pochi minuti) e poi passava all’esperimento vero e proprio.
Alla richiesta di scegliere se preferivano dare ai membri del proprio gruppo 2 dollari e a quelli “dell’altro” gruppo 1 dollaro oppure 3 al proprio e 4 “all’altro”, incredibile ma vero, la risposta prescelta era la prima: il solo fatto di appartenere a “un’altro” gruppo creava non solo senso di appartenenza ma anche una miope e irrazionale competitività (per usare un eufemismo).
Il granfalloon “è un’associazione di esseri umani priva di significato e articolata solo sull’orgoglio dell’appartenenza…”
I ricercatori hanno scoperto che alla base di questo potentissimo meccanismo esistono due processi, uno di carattere cognitivo e uno motivazionale: il primo crea una percezione di appartenenza al gruppo che classifica e dà senso al mondo (una sorta di etichettatura avente, fra gli altri, il corollario di spersonalizzare l’antagonista rendendolo più facilmente attaccabile e insultabile), mentre il secondo offre orgoglio e autostima rinsaldando quindi il legame in un circolo vizioso.
Tornando alla propaganda osserviamo quindi che, una volta indotta la paura, diventa estremamente facile creare il “noi” e il “loro”, “noi siamo buoni, loro sono cattivi”, “loro sono la malattia, noi siamo la cura”; uno degli effetti gravi e fatali del granfalloon infatti, è proprio quello di disumanizzare l’antagonista non più individuo singolo ma elemento rappresentativo del gruppo “altro”; egli è una minaccia ai presunti valori collettivi e minando l’identità del gruppo mina quella del singolo che in esso, giocoforza e pericolosamente, è confluito identificandosi.
Esempio altrettanto potente (e talora altrettanto pericoloso se si considerano alcune manifestazioni dell’età adolescenziale e preadolescenziale) è quello del granfalloon creato dal marketing di prodotti fortemente caratterizzati: appartenere al gruppo di chi indossa le scarpe di Michael Jordan o di chi possiede lo zainetto ultimo-grido è già segnare un solco che divide e class-ifica i componenti dei singoli gruppi.
In conclusione, in omaggio al “protagonista” di questo articolo, non posso non citare un suo geniale aforisma, una zampata d’autore che sembra scritta appositamente per questi nostri tempi di comunicazione non etica, marketing selvaggio, propaganda e scontri politici e istituzionali, centrati, come dicevo prima, sulle etichette e non sui contenuti:
“Per favore: un po’ meno d’amore, un po’ più di dignità.”
(K. Vonnegut, Indianapolis 11/11/1922 – New York 10/5/2007)