Terreno infido quello del buon senso: ognuno pare abbia il proprio, eppure, per definizione, il buon senso dovrebbe essere trasversale, dovrebbe unire diverse teste sotto lo stesso ombrello, altrimenti che buon senso è?
Ho deciso di riprendere, integrare e sviluppare un argomento toccato un bel po’ di tempo fa in un mio articolo: secondo me ce n’è ancora parecchio bisogno.
E così vediamo anche quant’è grande, quest’ombrello.
Prova a chiedere in giro cos’è un’azienda; chiedilo a qualcuno a caso, ferma un po’ di gente per strada e poni la domanda.
Se non chiamano i vigili per le molestie – tue o loro – raccoglierai le risposte più disparate: l’azienda è un progetto, è una visione, un modo per fare profitti, un lascito ai posteri, un gruppo di persone che lavorano insieme, una famiglia, un pezzo della società ecc.. Se incontrassi me ti risponderei “è un organismo di trasformazione”.
Sarà meno poetica, apparentemente più fredda, troppo tecnica, eppure ancora oggi è la definizione che mi piace e mi soddisfa di più e dalla quale discendono, con maggior coerenza, i principi in cui credo.
Come spesso faccio nelle occasioni in cui lavoro con le persone, voglio procedere anche adesso, qui, per passi misurati, uno via l’altro, muovendo dal precedente al successivo solo per effetto di progressioni logiche, innegabili: si creano premesse incontestabili dalle quali si estraggono gli esiti che a loro volta diventano la base per un nuovo avanzamento. Così facendo, proprio per la loro ascendenza e la loro genesi, i risultati diventano solidi, inconfutabili, un po’ come facevamo a scuola con la geometria, ricordi?
L’AZIENDA COME ORGANISMO DI TRASFORMAZIONE
Un’azienda trasforma RISORSE in RISULTATI.
Detta così pare innegabile: una definizione generica, di superficie, buona per ogni stagione. Non pretende di essere completa o esaustiva ma di certo non afferma una sciocchezza. Sembra una di quelle cose che quando le dici sei sicuro di non sbagliare ma che, all’atto pratico, non contribuiscono poi tanto alla discussione, non danno chissà quale valore aggiunto. Non sembra una “genialata”, non è rivoluzionaria (né pretende di esserlo per la verità… vabbè, forse un pochino…), però approfondendo la questione e definendo per bene cosa deve intendersi per RISORSE e cosa per RISULTATI la questione si fa un po’ più interessante…
La definizione di RISORSE che trovo più azzeccata è quella di Robert R. Blake: un teorico americano del management che insieme con Jane S. Mouton è ideatore dell’ottimo Managerial Grid:
Le RISORSE sono ciò di cui le persone dispongono singolarmente per contribuire all’organizzazione; sono altre risorse umane, sono le conoscenze, le capacità e le motivazioni che hanno a disposizione nell’uso delle risorse tecniche, finanziarie o altre, indirette o di tipo non umano.
Anche qui, sembrerebbe, nulla di esaltante: un’azienda ha capitali, attrezzature, idee, brevetti, spazi, materiali ecc. e da questi prende piede, avvia i suoi processi per raggiungere i risultati attesi.
Ma in questa definizione la parola in assoluto più importante, la parola chiave, è “singolarmente”; potrebbe apparirti poca cosa ma in realtà rovescia drasticamente le abituali prospettive.
Le RISORSE non sono a disposizione dell’”Azienda“, entità un po’ fantomatica, ma sono sempre e giocoforza a disposizione delle persone che in essa si muovono.
Poco importa che i singoli, per esigenze produttive, organizzative o strategiche siano riuniti in gruppi, uffici, dipartimenti, sezioni, B.U., divisioni, settori, team, squadre, equipe, brigate, staff, troupe ecc. (…però, quante parole che abbiamo per creare separazione, eh?); poco importa, dicevo, perché la realtà dei fatti è che tutte quelle risorse, quegli strumenti o quei supporti sono percepiti, utilizzati, valorizzati e tutelati dai SINGOLI, non da una qualunque forma di loro aggregazione. Insomma, non è un “gruppo” o un “team” che sfrutta le RISORSE ma sono, ciascuno per sé e per come sa, i singoli.
Certo, ognuno di essi è in qualche modo influenzato dall’ambiente (e quindi anche dal gruppo cui appartiene) ma quando poi, in definitiva, si dispone a usare una risorsa o a considerarne la bontà lo fa in prima persona, come soggetto autodeterminato.
Questo aspetto della faccenda è basilare e potenzialmente esiziale: sarà chiaro fra poco.
Questo è il primo passo e direi che non sia discutibile, ne convieni?
D’altro canto come potrebbe essere altrimenti? Come si potrebbe mai affermare che ciò che facciamo e pensiamo “lo faccia e lo pensi qualcun altro”?
Potremo anche essere “influenzati dagli altri” o dalla “struttura” (nel Beer Game questo aspetto è drammaticamente dimostrato) ma alla fine siamo noi che facciamo le cose, siamo noi i respons-abili.
Bene, passiamo ai RISULTATI, così cari a chi fa impresa.
La prenderò larga quanto basta…
Immagina un’azienda composta da un numero a piacere di persone, non ha importanza quante. E immagina se ciascuna di esse, una volta giunta al lavoro, si chiudesse in una stanza senza finestre, senza telefono, fax, internet, cellulare, insomma senza alcun modo per interagire e relazionarsi con gli altri, interni o esterni: quanto tempo pensi sopravvivrebbe quell’azienda?
Per quanto (apparentemente) banale questo è proprio il punto: se le persone non interagiscono, non si relazionano, non comunicano tra loro, la trasformazione di RISORSE in RISULTATI, semplicemente, non è possibile.
Definizione di RISULTATI, stessa fonte:
Il prodotto della interazione dei singoli, dei gruppi e del problem solving.
Sono misurabili in produttività, profitto, creatività, innovazione, beni, servizi, vendite, numero clienti.
Misurano il grado di realizzazione degli obiettivi aziendali.
Ma allora, a ben riflettere, il vero motore portante di un’azienda e di un’organizzazione in generale non può altro che essere ciò che trasforma RISORSE in RISULTATI.
Possiamo avere fondi ingenti, persino illimitati, un’idea geniale, un brevetto straordinario, un mercato vergine e affamato del nostro prodotto, la migliore tecnologia a disposizione e qualunque altro asset ci passi per la testa, ma se non mettiamo gli individui in condizione di relazionarsi (e non a casaccio, inoltre, ma in maniera strutturata), beh, rimarrà solo un bel proclama.
Il cuore pulsante e il motore trasformatore di un’azienda, ciò che permette di credere e sperare che essa possa vivere e prosperare, sono le RELAZIONI.
Definizione di RELAZIONI, sempre R.R. Blake:
Le RELAZIONI sono le interazioni tra le persone. […] Le R2 contraddistinguono la propensione al lavoro di squadra dei singoli e dei gruppi in ogni situazione di contrapposizione tra gruppi, siano essi interni alla stessa funzione, interfunzionali o nei rapporti con clienti, utenti e con chiunque si abbia a che fare nell’attività di tutti i giorni. È il territorio della cultura organizzativa, definisce il “come facciamo le cose”.
LE RELAZIONI E IL METRO DA SARTA
Eppure…
…eppure quanto siamo bravi a dosare puntigliosamente le RISORSE, come siamo meticolosi nel verificare la rispondenza dei RISULTATI ai nostri obiettivi; e quanto investiamo in analisi, controllo di gestione, data mining, grafici, tabelle, stime, previsioni, consuntivi e vattelapesca cos’altro!
Certo, e sai perché? Perché RISORSE e RISULTATI sono grandezze che si prestano a essere misurate e comprese attraverso i numeri e, sempre attraverso essi, a essere modulate, adattate, raccontate.
In fondo, impariamo a far di conto sin dalle elementari: chi non sente di poter far qualche semplice somma, una proporzione o una sottrazione per calcolare un ricavo? Purtroppo tutto questo ci consegna l’illusione del controllo, di “saper fare”, di avere in mano la cloche, di avere già in partenza la preparazione minima per capire come stanno le cose e come interagire con esse così da mandarle nella direzione che vogliamo.
Già, ma con le RELAZIONI, che pure sono la linfa vitale dell’ecosistema aziendale, il vero centro di gravità, è tutt’altra musica: quelle come le misuri? Chi ti insegna a interpretarle, a dare loro la giusta centralità, a intervenire per renderle proficue e fluide, a leggerle e tradurle?
Sì, è vero, ci sono percorsi formativi, ovviamente anche di “livello universitario”, in uno e nell’altro settore, ma… hai notato la differenza di offerta? E non intendo solo in termini quantitativi ma qualitativi (e qui mi taccio per decenza).
A questo devi aggiungere che culturalmente siamo tutti portati a pre-occuparci di R1 e R3 e a snobbare o sottovalutare le competenze (e le capacità) in R2 come fossero vuota filosofia, fuffa per manager hippies-peace-and-love o per consulenti truffaldini, narcisi e beoti.
– LA MIA SOLITA PARENTESI –
A riguardo di quest’ultimo punto mi tocca proprio dire una cosa: ahimè, comincia a essere vero.
Non il fatto che sia vuota filosofia, figuriamoci (che poi c’è filosofia e filosofia), ma che iniziano a esserci un po’ troppi fanfaroni in giro: ecco, questo è vero.
D’altro canto si è venuta a creare una tale domanda (più o meno consapevole) di queste competenze da far sì che molti, dopo un corso di mezza giornata o per aver letto un libricino di cento pagine, si sentano già dei guru e decidano di acchiappare un pezzo di quel succulento mercato managerialmente subacculturato proponendosi come esperti di questo o di quest’altro, naturalmente con un bel “biglietto da visita” in inglese, che fa tanto master.
Credo di poter dire che nel mondo delle aziende, o meglio in alcuni loro esponenti, ci sia una maggior sensibilità riguardo a questi temi. La desolazione portata in dote da una crisi che dovremmo smettere di pensare come transitoria ha evidenziato impietosamente i punti fragili nella struttura delle organizzazioni; questa percezione tuttavia si traduce ancora raramente in interventi organizzativi decisi e adeguati, correttamente pianificati, disposti al lungo periodo e stabiliti come prioritari.
– CHIUSA PARENTESI-
Tornando all’offerta di “soluzioni aziendali”, affermo con forza ormai da tempo che pensiero sistemico e comunicazione sono fra loro legati a doppio filo: un intervento organizzativo non può prescindere né dall’uno né dall’altra.
Basta pensarci un istante: poiché un sistema è “un’entità che perpetua la propria esistenza grazie alla relazione e all’interazione tra le parti che la compongono”, cos’è un’azienda se non un sistema? Ma se è un sistema, allora dovremmo osservarla, studiarla e interagire con essa attraverso le leggi dei sistemi, o no? O vogliamo continuare a far finta di niente??
[bctt tweet=”In un intervento organizzativo non può mancare né il pensiero sistemico né la comunicazione” username=”giamerlino”]
Inoltre: quale nome potremo mai dare alle interazioni tra le persone, che poi altro non sono che le diverse parti che compongono il sistema? Forse “procedure”? O “regole”? O “gerarchia”?
Le interazioni tra le persone, le relazioni, sono comunicazione: cos’altro sennò?
CONCLUSIONE E SFIDA
Eccoci alla fine: ci siamo mossi per gradi, passo logico dopo passo logico, per arrivare a questa conclusione.
Bene, ora lancio la sfida.
Che qualcuno provi a dimostrarmi, con il medesimo rigore, la sensatezza di avere un’azienda (o la responsabilità di guidarla) senza mettere a budget in R1 una quota costante di risorse da investire seriamente in formazione continua di qualità per interventi organizzativi di tipo sistemico e relazionale.
Sarò anche un oste che vende vino, d’accordo, ma voglio proprio vedere come riesce a giustificarsi un astemio…